Si finisce mai di imparare?Tempo di lettura: 4 minuti

Il concetto di occupabilità, il lavoro gratuito e il ricatto della formazione continua

Secondo la narrazione dominante, le imprese avrebbero difficoltà a trovare personale con le competenze giuste, perché i giovani italiani sono alternativamente troppo bamboccioni oppure troppo qualificati (ma negli ambiti “sbagliati”, ad esempio nelle facoltà umanistiche). Il gap tra domanda e offerta di lavoro sarebbe dunque la causa della stagnazione italiana, della scarsa crescita e della disoccupazione. In breve: colpa vostra che vi siete iscritti a Lettere, mica di trent’anni di politiche al ribasso sui salari e compressione degli investimenti pubblici. Ma andiamo con ordine. 

Per proporre una soluzione al problema, investendo oltre 6 milioni di euro  Adecco Group e Microsoft hanno da poco fondato Phyd Hub – uno spazio con sede a Milano “dedicato a orientamento e percorsi di up-skilling e re-skilling per studenti, professionisti e imprese attraverso esperienze Phy-gital”, cioè sia fisiche che digitali.

Phyd offre anche un servizio basato sull’intelligenza artificiale volto a calcolare l’“employability index”, cioè il grado di “adeguatezza e rilevanza” di una persona rispetto a una professione e quanto tale professione sia attualmente richiesta sul mercato del lavoro.  Il calcolo dell’indice è ottenuto grazie all’incrocio di diversi dataset: dalla tassonomia ESCO (European Skills, Competences and Occupations) della Commissione Europea, al database MIUR e AlmaLaurea, combinati con il datastore di UnionCamere e uno studio realizzato da TabulaEx, una società spin-off dell’Università Bicocca di Milano. 

Il proposito della piattaforma è duplice. Da una parte mira a sostenere l’occupazione in un periodo di recessione, dall’altra ad affrontare il supposto annoso problema d dello skill mismatch, ovvero la differenza tra qualifiche richieste dalle imprese e qualifiche offerte dai candidati. 

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Oltre il mito dello skills mismatch

I dati macroeconomici ci raccontano un’altra storia. Il problema in ambito italiano è, semmai, quello dell’assenza di domanda di lavoro qualificata: la mancanza, quindi, di un tessuto economico adatto ad assorbire persone con titoli di studio e qualifiche elevate. 

Spiega Marta Fana su Econopoly: 

Circa il 35% delle nuove assunzioni a tempo indeterminato tra il 2015 e il 2017 si concentrano nei settori dei servizi a scarsa produttività: commercio all’ingrosso e al dettaglio; riparazione di autoveicoli e motocicli; trasporto e magazzinaggio; servizi di alloggio e di ristorazione”. I dati citati da Fana vengono dall’Osservatorio sul Precariato dell’INPS (si veda grafico riportato di sotto).

INPS dati sole24ore

Il problema dello skills mismatch e la relativa narrazione sembrano contraddire la realtà: l’Italia è un paese dove il valore aggiunto e la competitività internazionale si ottengono attraverso la compressione dei salari piuttosto che tramite gli investimenti tecnologici. La domanda effettiva di posti di lavoro qualificati sarebbe quindi inferiore alla media europea, come è evidenziato sempre da Fana in Basta Salari da Fame! (p.79). 

Lo skills mismatch è un mito, sì, ma è anche un alibi per giustificare compensi bassi e assenza di tutele. Valigia blu ha raccolto in un articolo una casistica piuttosto ampia di veri e propri piagnistei di datori di lavoro che lamentano l’assenza di candidati adatti per le posizioni lavorative pubblicizzate. Nella maggior parte dei casi si trattava di posti precari, mal retribuiti e con orari impossibili. Ma la narrazione dei “giovani fannulloni” è ormai decollata: i millennials non sono abituati a lavorare (Aldo Grasso), sono choosy (Elsa Fornero), non vogliono fare il pane per duemila euro al mese (Massimo Gramellini). Per un certo periodo fu anche colpa del reddito di cittadinanza, che ovviamente disincentivava le persone a lavorare. 

Il risultato di queste rappresentazioni fallaci è la colpevolizzazione di un’intera generazione, che invece di lavoro – invariabilmente gratuito – permea la sua intera esistenza. 

L’economia politica della promessa

La retorica dell’acquisizione di competenze “spendibili” nel mondo del lavoro è il focus del dibattito sull’istruzione almeno dalla fine degli anni Ottanta, da quando la European Roundtable of Industrialists, un think tank fondato nel 1983 con l’obiettivo di promuovere la compenetrazione tra industria e potere politico e decisionale, pubblicò un rapporto in cui identificava come prioritaria l’acquisizione di competenze imprenditoriali durante i percorsi formativi. Non solo: tutto il discorso sull’acquisizione di competenze (ripreso non solo dall’ERT, ma anche da Unione Europea e OCSE, come illustra Mauro Boarelli in Contro l’ideologia del merito- Laterza 2019) si impernia sull’educazione continua, o lifelong learning. L’individuo, per essere “spendibile” sul mercato del lavoro, deve sottoporsi a una formazione continua, un costante aggiornamento delle proprie competenze; e non si parla ovviamente della continua scoperta alimentata da una genuina curiosità umana, ma di un perenne adeguamento alle esigenze delle imprese private, secondo canoni presumibilmente misurabili in modo oggettivo (come l’algoritmo dell’employability index), ma comunque sempre tarati su parametri di mercato. 

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Le persone, insomma, devono rendersi occupabili per combattere la disoccupazione. Ovviamente la prospettiva è del tutto individuale ed individualista, in perfetta armonia con l’ideologia neoliberale: i soggetti sono tenuti a impiegare il loro tempo di vita per formarsi, raffinare le proprie skills, cercare lavoro – tutte attività estremamente dispendiose in termini di tempo, risorse economiche ed energie mentali. Marco Bascetta parla di economia politica della promessa: una grande quantità di lavoro gratuito (nella forma di stage non pagati, master, corsi di formazione) è investito dai singoli in cambio della promessa da parte del datore di lavoro di un futuro impiego stabile e retribuito. 

Anche la narrazione dello skills mismatch e tutte le relative iniziative ad essa legate (come il Phyd Hub) vanno in questa direzione: sul singolo lavoratore ricade l’onere di essere perennemente appetibile. In questo modo ci si trova con una forza lavoro giovane, laureata, che ha speso anni a fare stage professionalizzanti ma non retribuiti, disposta a lavorare su turni massacranti (quando non lo fa è messa alla berlina mediaticamente), precaria e non sindacalizzata da un lato, e dall’altro, una domanda di lavoro a basse qualifiche e bassi salari. E’ questo, probabilmente, il mismatch di cui dovremmo indignarci.

Fonti bibliografiche:

Marta e Simone Fana, Basta Salari da Fame!, Laterza, 2019

Marco Bascetta, L’epoca della dis-retribuzione, in Salari rubati, Ombre Corte, 2017

Mauro Boarelli, Contro l’ideologia del merito, Laterza, 2019

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