Città, decoro e classeTempo di lettura: 5 minuti

Come la gentrificazione degli spazi urbani cambia il volto del lavoro

Non si può parlare di gestione e futuro delle città senza parlare di decoro e riqualificazione. Eppure, questi concetti esistono da non più di  tre decenni, anche se la loro storia inizia molto prima. Nonostante le narrazioni dominanti sulla riqualificazione delle città come veicolo per una rinascita economica e sociale,  la storia del decoro urbano e della gentrificazione delle città è una storia di conflitto di classe: il risultato finale è infatti l’espulsione dei poveri dalla vita civica e dai contesti comunitari. Anche il mondo del lavoro nei quartieri gentrificati subisce una trasformazione: come nei casi di “displacement” ovvero di intere comunità di residenti costrette a spostarsi in quartieri più periferici e mal serviti. O negli esempi di aree che hanno cambiato volto, e da residenziali e working class sono diventate hub per startupper e imprenditori creativi. O ancora, storie di centri città trasformati in vetrine per turisti. 

Le linee della gentrificazione

Prima tutto, proviamo a dare una definizione il più possibile completa di gentrificazione. Si tratta di un processo di cambiamento di un quartiere storicamente degradato o marginale, tramite investimenti economici, in particolare immobiliari, che ne modificano la composizione demografica. Questo cambiamento riguarda il reddito dei residenti, ma nella maggioranza dei casi anche la razza, l’etnia e la religione. I cittadini più abbienti ci si trasferiscono, aprono esercizi commerciali, e obbligano le  comunità più marginali a trasferirsi altrove in quanto generalmente non possono più permettersi gli affitti in continua crescita e l’aumento del costo della vita.  Negli Stati Uniti la gentrificazione riguarda quartieri storicamente afroamericani come Greenpoint a New York (quello di She’s Gotta Have it, per intenderci) o Inglewood a Los Angeles. Uno degli effetti più immediati della gentrificazione è la crisi abitativa: le persone che non possono più permettersi gli affitti nel loro quartiere di origine sono costrette a spostarsi in aree ancora più periferiche oppure restano addirittura senza casa. In Europa esempi di quartieri gentrificati sono il Pigneto a Roma, Isola a Milano, Brick Lane a Londra, Neukölln a Berlino, e sempre di più Exarchia ad Atene. 

Gli investimenti privati (spesso sostenuti e sponsorizzati da politiche pubbliche) creano vere e proprie faglie di classe, distruggono comunità storiche e alimentano l’esclusione sociale. L’alta qualità della vita nei quartieri gentrificati è dunque tale solo per una precisa fascia demografica: benestante e tendenzialmente bianca. 

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Il quartiere di Williamsburg, Brooklyn

La gentrificazione e il lavoro

Quando si parla di gentrificazione si pensa generalmente alle sue relazioni con l’abitare. Ma la gentrificazione ha legami profondi anche con il lavoro.

Di particolare interesse per la comunità degli affari di Milano sono gli sforzi per creare un ambiente favorevole all’economia, attraendo investimenti privati, riducendo la burocrazia pubblica, equilibrando il bilancio e usando giudiziosamente la politica fiscale

Queste parole sono tratte da una lettera inviata dagli industriali milanesi all’allora sindaco di New York Rudy Giuliani, famoso per la cosiddetta “lotta al crimine” e la politica della tolleranza zero verso ogni genere di reato. 

Il decoro e la sicurezza sono business. Logica vorrebbe che il circolo virtuoso degli investimenti accrescesse i posti di lavoro a disposizione e il benessere della comunità. E’ davvero così? 

Uno studio del 2004 sul quartiere di Williamsburg, Brooklyn, evidenzia come il passaggio da un’economia basata sull’industria e la produzione di massa a un’economia basata sull’offerta di servizi abbia prodotto un cambiamento degli spazi urbani: le aree industriali sono diventate aree residenziali, dove si sono concentrati lavori a bassi salari e bassa specializzazione, ma, a differenza del classico impiego blue collar di fabbrica, poco sindacalizzati. Scrive l’autore dello studio:

“La gentrificazione è un processo ad alta intensità di lavoro. Richiede il rinnovamento di spazi residenziali, industriali e commerciali. (…) Il subappalto, l’utilizzo di laboratori sweatshop (spazi dove i lavoratori industriali sono impiegati a salari bassi e con condizioni di salute precarie, diffusi soprattutto nell’industria tessile ndr) diventano comuni, conducendo a un aumento significativo di lavori mal retribuiti. “ (traduzione propria)

Un paper del 2017 basato sui residenti di New York osserva che la perdita di posti di lavoro “locali” per i residenti storici dei quartieri soggetti a gentrificazione arriva fino al 63%. Questa perdita di lavoro è concentrata principalmente nel settore dei servizi a medi-bassi salari. Questo calo è compensato da una crescita dell’occupazione in zone lontane dal quartiere di riferimento: i residenti, specialmente quelli appartenenti a fasce di reddito medio-basse, perdono il lavoro nel loro quartiere d’origine e sono costretti a spostarsi. 

Camden Town, Lodres, England, Regent'S Canal Toupath
Camden Town, a Londra

Il posto dei lavoratori storici è preso da tipologie di occupati molto diverse. Un fenomeno lavorativo collegato alla gentrificazione è quello della nascita dei coworking spaces, spazi condivisi per lavoratori autonomi, generalmente pubblicizzati come hub creativi per giovani, startupper e innovatori. Se da una parte il proliferare dei coworking è una risposta all’aumento dei prezzi degli uffici “tradizionali” nei quartieri gentrificati (fuori dalla portata di nuove imprese o lavoratori autonomi), la loro nascita crea un effetto di loop per la crescita del quartiere: l’energia hip alimentata dagli spazi di coworking creativi è un valore per gli investitori immobiliari. Si legge in un articolo di Underpinned (una comunità che, ironicamente, si occupa proprio di supportare giovani imprenditori creativi) con riferimento alla città di Londra: 

“I giovani freelance creativi e i nuovi business generano esattamente l’energia imprenditoriale vitale che gli investitori immobiliari adorano. In un mondo dove il marketing è tutto, l’energia “cool” diventa un ottimo prospetto di vendita. Qualche anno fa un imprenditore immobiliare ha spiegato che i “creativi” sono un importante richiamo per gli investitori.” (traduzione propria)

Il proliferare dei coworking è legato a doppio filo al fenomeno del precariato imprenditoriale: sempre più persone, come risposta alla disoccupazione crescente, decidono di diventare lavoratori autonomi o lanciare nuovi business. La figura del giovane “imprecario”, che è costretto a diventare, spesso suo malgrado, imprenditore di se stesso, popola gli spazi dei coworking urbani. Ecco dunque che il cerchio si chiude: l’impoverimento e la precarizzazione, gli affitti che salgono, gli spazi di lavoro condiviso a prezzi relativamente accessibili che in ultima istanza ingolosiscono gli investitori privati dell’edilizia. 

Michelangelo, David, Florence, Sculpture, Italy, Statue
Piazza della Signoria a Firenze

Un ultimo caso, particolarmente discusso nel nostro paese, è quello del rapporto tra gentrificazione e turismo. In Italia, la gentrificazione dei centri storici si basa soprattutto sul mantenimento del decoro per i turisti. Un esempio da manuale è la campagna #EnjoyRespectFirenze, che sanziona comportamenti indecorosi come sedersi a mangiare sulle scale di un edificio, comprare merce contraffatta (ricordiamoci che anche il lavoro ambulante è lavoro, e che spesso è l’unica forma di sostentamento per chi lo pratica), essere “troppo rumorosi”, frequentare luoghi pubblici “in stato di ubriachezza”. Non si può più “bivaccare” in una piazza senza sedersi a un bar, ovviamente pagando. I poveri “indecorosi”, i malati di mente, i “rumorosi” non trovano spazio in città. I centri storici si svuotano, l’obiettivo è renderli musei a cielo aperto. Il turismo, a misura di visitatore ricco e posato, che mangia ai tavolini del bar e non fa schiamazzi, crea quei posti di lavoro tanto cari alla narrazione mitizzata della gentrificazione delle città. Posti di lavoro (spesso tipicamente offerti da grandi catene commerciali, dal momento che gli affitti sono proibitivi per i piccoli esercizi) che spesso non includono i residenti, anzi li lasciano ai margini (specialmente quelli appartenenti alla classe operaia o al sottoproletariato) e distruggono gli esercizi commerciali storici di un quartiere, oppure quelli etnici (termine utilizzato dal sindaco di Venezia per descrivere i minimarket e negozi alimentari gestiti da persone non bianche). Posti di lavoro che sono specchietti per le allodole che distraggono dal vero nodo centrale della gestione urbana di oggi: l’esclusione dei poveri dalla vita civica, le diseguaglianze crescenti, la mancanza di investimenti pubblici soppiantati dal capitale privato. 

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