A San Berillo, in provincia di Catania, un gruppo di sex workers è stata vittima di un episodio molto grave di violenza da parte delle forze dell’ordine. Alcune donne sono state gettate a terra, gli abitanti del quartiere che hanno provato a filmare la scena sono stati anch’essi picchiati, intimiditi e tradotti in questura. Le case di alcune lavoratrici sono state perquisite senza mandato, in modo del tutto illegittimo.
E’ importante parlare di questo episodio non solo per fare luce sugli abusi delle forze dell’ordine ai danni di cittadini e cittadine, ma anche per ribadire che il lavoro sessuale è lavoro: chi lo pratica deve sentirsi ed essere al sicuro dallo stigma, dalla violenza, dalla marginalizzazione. Decriminalizzare il lavoro sessuale significa dare agency alle lavoratrici, offrire la possibilità di denunciare abusi, violenze sessuali e violenza istituzionale, nonché fenomeni di tratta e sfruttamento della prostituzione.
Durante la pandemia, la possibilità di esercitare il lavoro sessuale in modo sicuro si è ulteriormente ridotta. Le lavoratrici del sesso non hanno potuto beneficiare legalmente del supporto di stato come altri professionisti indipendenti. La povertà e la marginalizzazione sono aumentate, così come l’esposizione a forme di violenza.
Uno dei problemi centrali nella narrazione del lavoro sessuale e del suo stigma è quello della “moralizzazione” dell’atto sessuale in sé: vendere sesso o prestazioni è visto come una “svendita” di sé – spesso si fa riferimento alla “vendita del proprio corpo”, come se fosse una pratica di per sé violenta – quindi non esercitabile con cognizione di causa da parte di un soggetto.
Questa visione comporta due problemi. La prima, e la più lampante, è quella della vittimizzazione delle lavoratrici del sesso, viste come bamboline indifese da tutelare da se stesse, oppure come pericolose minacce all’ordine pubblico – a seconda ovviamente dell’opportunità politica. Dall’altra c’è la certezza dogmatica che gli altri tipi di lavoro siano non solo moralmente neutri, ma anche sempre svolti con il pieno consenso del lavoratore e non sotto una forma di ricatto più o meno velata. La sfera sessuale è vista come un tabù a metà tra sporcizia e la sacralità, qualcosa che non si può per definizione “vendere” in cambio di denaro. Ma siamo certi che tutti gli altri lavori non costituiscano una “vendita del corpo”? Dove si trova il confine tra libero arbitrio e ricatto? Una persona che lavora dodici ore in un campo di pomodori, in un magazzino, su un autobus pubblico lo fa in cambio un compenso economico, ma lo fa seguendo il proprio desiderio e la propria libertà? La risposta sicuramente è: non sempre, non del tutto, dipende dai casi. Perché, in un mondo dove ancora il lavoro salariato è il modo principale per garantirsi un tetto sopra la testa, questo ragionamento non deve valere anche per le sex workers, a cui è sistematicamente negato lo status di lavoratrici al pari delle altre?
Risorse per approfondire:
Sex worker nella pandemia, InGenere
Aboliamo il sex work. E allora aboliamo il lavoro. Grazie Laurie Penny (New Statesman)
La quarantena ha lasciato le sex workers senza tutele, The Submarine
Il sito del collettivo Ombre Rosse