Negli abissi editoriali con Alessandra Zengo
Inauguriamo la nostra rubrica sui mestieri della parola scritta. Esploreremo, nello spazio di diverse puntate, le professioni legate alla scrittura. La nostra prima ospite è Alessandra Zengo, che ci ha parlato di ha parlato di mercato editoriale, muse ispiratrici e dei tanti tipi di lavoro che fanno sì che i libri che amiamo arrivino sui nostri scaffali fisici e virtuali.
Ciao Alessandra, benvenuta ad Anticurriculum. Raccontaci un po’ chi sei e di cosa ti occupi.
Mi chiamo Alessandra Zengo e sono un po’ mercenaria (contro la mia volontà): correggo i testi delle persone o delle case editrici che mi pagano, e non dopo centoventi giorni. Faccio anche altre cose, ma alla fine tutto si riduce alla mania della correzione, più che all’invenzione. A volte mi contraddico e decido di scrivere: una newsletter (Elementary) e due podcast (Elementary e Abisso editoriale). Il mio sito è www.alessandrazengo.com.

Partiamo dal principio. Quando si pensa a come nasce un libro si pensa allo scrittore posseduto dalla musa ispiratrice che si siede al tavolo e tira fuori Guerra e Pace. È veramente così?
Il mito dello scrittore solitario, geniale, di sesso maschile e un po’ maledetto è un retaggio che fatichiamo a scrollarci di dosso, ma che non è emerso col romanticismo. Il romanticismo l’ha solo consacrato a nostra imperitura memoria. Persino Kant, nel 1790, si è fatto fregare dallo Zeitgeist e ha dedicato cinque paragrafi della Critica del Giudizio all’argomento: “Il genio è il talento di produrre ciò di cui non si può dare una regola determinata […]; per conseguenza, l’originalità è la sua prima proprietà”[1].
Tuttavia, come dimenticare le radici dell’idea, ovvero la divina follia che permea il pensiero greco, e che non riguarda soltanto la poesia ma tocca tangenzialmente pure la filosofia, col dàimon socratico? Platone non concorda con l’autocomprensione del maestro (ma per onestà intellettuale ce la riporta lo stesso): non vuole correre il rischio di trovarsi in una stanza piena di poeti posseduti o di filosofi che parlano da soli. A un certo punto, però, è costretto ad ammettere che l’artista mediatore (tra le muse o Apollo e il pubblico) è comunque un passo avanti rispetto all’artista imitatore, che crea una copia della copia (l’inutilità al quadrato).
Il paganesimo non ha l’esclusiva sull’ispirazione, che è stata cooptata con successo dalla tradizione cristiana. Dagli anonimi autori della Bibbia fino a oggi, passando per i romanzieri russi, quanti hanno pensato di scrivere sotto l’influsso provvidenziale di Dio e non degli dei?
È Simone Weil che spiega, ed esemplifica, il funzionamento dell’ispirazione di matrice cristiana: “È un moto di discesa, mai di salita; un moto di Dio, non nostro. Noi, un contatto simile, possiamo effettuarlo soltanto in quanto Iddio ce lo detta. Il nostro compito è quello di esser rivolti verso l’universale”[2]. Impossibile risalire all’ispirazione, bisogna restare vigili e aspettare che accada. Che Dio, insomma, ci faccia la grazia di accorgersi di noi e di darci una mano — come per la salvezza eterna. Nessuno scrive da solo.
Il problema emerge se non si crede al paranormale o all’esistenza del divino. Cosa rimane dell’ispirazione, quando la trascendenza scompare?
La mia ipotesi è che il concetto, insieme ad altri, svolga la medesima funzione di “tamponamento” di una garza sterile su di una ferita aperta: come rendere conto altrimenti degli aspetti della creazione artistica che non riusciamo a oggettivare o chiarificare o dissolvere scientificamente (cioè psicologicamente, neurologicamente)? In che modo giustificare quel residuo letterario che non sembra discendere dallo scrittore?
Accettare la completa aderenza tra creatore e creatura porterebbe diritto nelle braccia della contraddizione, all’idea che le qualità estetiche del libro dipendano dalla soggettività che l’ha concepito — ma sappiamo che non è questo il caso. L’opera conquista sempre la propria autonomia a spese dell’autore, e non le importa certo delle pretese espressive, emotive, narcisistiche. Al massimo, richiede la sua presenza per fini promozionali e di marketing.
L’impiego del termine, che si trascina dietro una lunga storia, comporta forse l’ammissione di un paradosso: o l’ispirazione rimanda a una dimensione ulteriore, che finisce per depotenziare l’individuo, oppure cade nel circolo, e ritorna alla sua origine, alla persona che ha pensato e scritto, e allora non è che una finzione concettuale che maschera una mancanza — esplicativa — di senso. Però, diciamolo, funziona. Ci capiamo subito, quando la nominiamo, perché allude a uno stato ideale di produzione, quando i pensieri e le parole fluiscono senza sforzo dalla mente alla pagina.
La genialità soffre di un problema analogo. Il genio è nato o creato? Una domanda che ha tenuto impegnato Joseph Addison, ancora prima che Kant diventasse un progetto nella mente della madre: i geni nascono così (Omero, Pindaro, Shakespeare) o lo diventano (Platone, Virgilio, Milton), ma non c’è alcuna differenza qualitativa apprezzabile tra i due tipi.
È probabile che questa seconda classe sia più popolosa rispetto alla prima (se ammettiamo l’esistenza del genio naturale che non ha bisogno di fare alcunché, a parte esistere e mettersi al lavoro), ed è probabile che la reverenza nei confronti del genio dipenda dalla nostra ignoranza circa le condizioni materiali dello scrivere, che di solito ha poco a che fare con l’irrazionale e molto con le cancellature, le critiche, i tagli, i ripensamenti, le battute d’arresto, le rinunce, le sospensioni. Anche il genio fatica, anche il genio riscrive, anche il genio dubita, anche il genio si dispera e distrugge i fogli o il computer.
Siamo a Dresda, è l’8 ottobre 1870, il nostro nome è Fëdor Dostoevskij e stiamo scrivendo a Nikolaj Nikolaevič Strachov:
“All’inizio, e cioè alla fine dell’anno scorso, consideravo questo romanzo con una certa baldanzosa sicurezza, come una cosa ormai pronta e fatta, che non mi sarebbe più costata sforzi e tormenti. Ma poi sono stato visitato dall’autentica ispirazione, e a un tratto mi sono innamorato del mio tema, mi ci sono dedicato interamente e ho cancellato quel che avevo scritto. Quindi in estate si è verificato un altro cambiamento: si è fatto avanti un nuovo personaggio che avanzava la pretesa di essere lui il vero protagonista del romanzo, cosicché il precedente protagonista (un personaggio interessante, ma che effettivamente non meritava il ruolo di protagonista) si è ritirato in secondo piano. Questo nuovo protagonista mi ha talmente affascinato che ho cominciato un’altra volta a riscrivere il romanzo. E proprio ora, quando ho appena mandato alla redazione del «Messaggero Russo» l’inizio dell’inizio, improvvisamente mi sono spaventato: ho paura di aver affrontato un tema superiore alle mie forze. Ho veramente paura, una paura tormentosa!”[3]

Copy editor, line editor, lettori professionisti, correttori di bozze. Quanti mestieri esistono all’interno del mondo editoriale? Chi è che porta un libro sugli scaffali delle librerie?
Moltissimi, ed è un peccato che le persone che vogliono lavorare in editoria non li conoscano abbastanza, o li ignorino del tutto. “Voglio lavorare in editoria”, ma non sanno cosa, come, in che ruolo (o ruoli).
Non esistono solo le posizioni redazionali (lettore, correttore di bozze, redattore, editor): si dimentica con una frequenza allarmante che le case editrici, per funzionare, hanno bisogno di un’amministrazione che sistemi i conti, mandi le fatture, paghi i dipendenti, e di un comparto commerciale che persuada librerie, promotori editoriali, distributori a dare una possibilità ai libri che propone. E l’ufficio diritti? Non serve una laurea in giurisprudenza, ma averla non può certo nuocere.
Poi ci sono il grafico editoriale, che riveste il testo e lo fa diventare un libro, il responsabile del marketing, che cerca di convincere le persone a comprare, comprare, comprare (talvolta con l’incentivo della ciabatta da mare in omaggio), il social media manager, che dialoga con i lettori e gestisce i profili social della casa editrice pilotato da uno stratega della comunicazione, lo scout, che scopre nuove voci oltre i percorsi tradizionali, l’agente letterario, che rappresenta gli interessi degli autori — e i propri — presso l’editore. Insomma, un ampio spettro di possibilità d’ingegno e impiego.
L’editoria italiana, comunque, non è abbastanza estesa da permettere una differenziazione apprezzabile tra vari tipi di editor. Ci si accontenta del junior o senior editor (interno o esterno) che corregge i testi e dell’editor in chief, che gestisce una o più collane e decide quali libri pubblicare. Copy editor, line editor, content editor, ecc., sono etichette impiegate dai freelance per descrivere l’approccio generale o l’intervento specifico.
Come è cambiata, a tuo parere, l’editoria con l’avvento del digitale? Quali sono i problemi e le opportunità che si sono presentate con questa rivoluzione?
“Plus ça change, plus c’est la même chose”[4]: Che Jean-Baptiste Alphonse Karr stesse pensando all’editoria italiana già nel 1849?
Il digitale ha cambiato radicalmente il settore, i modi e i processi di produzione e di consumo, e nonostante questo si ha l’impressione che non sia cambiato nulla — di sostanziale. Che le diversità stiano in superficie, e galleggino sopra problemi strutturali preesistenti. Avrà a che fare con l’elasticità mentale, se non proprio fisica, delle persone che prendono decisioni?
Neanche la pandemia è riuscita a dare la scossa decisiva: ci si è rivolti al digitale come extrema ratio, senza un piano, una strategia, una prospettiva. Le cose buone ci sono state, ma forse non abbastanza. Il tempo dirà se dureranno o se si trattava soltanto di fantasmi passeggeri.
Per esempio, nell’anno appena trascorso e-book e audiolibri sono cresciuti, rispettivamente del 37% (97 milioni) e del 94% (17,5 milioni), eppure rappresentano una piccola fetta dell’editoria trade (il 7,4%, insieme).
Nell’indagine ISTAT riferita al 2019 leggiamo che “il fatturato derivato dalla vendita di contenuti digitali (e-book, banche dati e servizi web) non supera il 10% del totale per il 90,5% degli editori, indipendentemente dalla dimensione d’impresa. Soltanto per una parte dei grandi editori (14,3%) arriva a incidere fino un quarto del fatturato totale”. Le vendite del 2020 (copie digitali + abbonamenti audio) quanto incideranno su questa percentuale deprimente?
Persiste come un’edera selvatica il problema della disponibilità in e-book delle nuove pubblicazioni (il 22%, con un incremento di otto punti rispetto all’anno precedente) e della digitalizzazione del catalogo (per non parlare del recupero del fuori catalogo).
Il dato più positivo arriva dalle librerie online (a scapito, ovviamente, delle librerie fisiche, indipendenti e di catena), che salgono dal 27% del 2019 al 45% del primo trimestre del 2021. L’ultimo comunicato stampa AIE ci informa che la quota di mercato dei piccoli e medi editori è passata dal 39,5% del 2011 al 47,5% del 2019, al 50,9% del 2020, fino a toccare il 54,1% tra gennaio e marzo 2021. L’incremento è esiguo ma significativo e testimonia che l’online, se sfruttato adeguatamente, contribuisce alla riduzione dello iato tra la cima e la base della piramide editoriale. La disparità economica (e di mezzi) rimane, ma almeno i libri dei micro-editori sugli store online esistono, sono disponibili per l’acquisto: niente limiti spaziali, e il problema della disponibilità è superato.
Il risvolto negativo: quante delle vendite online avvengono su Amazon? E cosa impedisce agli altri e-commerce di essere concorrenziali? Il problema non è soltanto etico — sarebbe interessante finanziare un’indagine sulle condizioni di chi lavora per gli store italiani — ma commerciale, nell’equilibrio tra l’azienda che produce e quella che distribuisce e vende. Cosa faremo quando Amazon, forte della sua posizione, comincerà a chiedere uno sconto maggiore? A pretendere condizioni più favorevoli, a svantaggio degli editori, costretti a scegliere tra l’oblio e un margine di profitto ridotto?
Ops, ho sbagliato tempo verbale: “cosa abbiamo fatto”, e non “cosa faremo”, dato che è già successo. In Italia con edizioni e/o, che non vende su Amazon dal 2017. Gli e-book sono ancora disponibili sulla piattaforma, però.
(Qui potete trovare la puntata di Abisso Editoriale dedicata ai numeri dell’editoria digitale)

Parliamo infine del mestiere di “insegnante di scrittura”, ovvero della grande domanda: si può insegnare a scrivere? Quale ruolo hanno le scuole di scrittura (in Italia) rispetto alle case editrici?
Dobbiamo metterci d’accordo sul significato di “insegnare a scrivere”. E sulle parti della scrittura, se esistono, che sono insegnabili, cioè trasferibili da una persona all’altra, da un testo all’altro.
Si citeranno la grammatica e le basi della lingua, che di solito non vengono riprese nelle scuole di scrittura e rimangono appannaggio della scuola dell’obbligo, oppure le “tecniche narrative”, all’occorrenza deleterie a causa di un approccio troppo prescrittivo.
Io non ho alcun problema con l’induzione, con la ricerca del generale a partire dal particolare, con le strutture profonde delle storie e così via. Ma mi domando se ha senso compiere il procedimento inverso, partire cioè dalla struttura che qualcuno ha scoperto o dalla norma che qualcuno ha teorizzato per scrivere un romanzo. È un tipo specifico di architettura romanzesca a garantire la buona riuscita dell’impresa?
Poi, ovvio, dipende dalla destinazione che si immagina per la propria scrittura. Scommetto che gli sceneggiatori di The Mandalorian hanno innalzato Il viaggio dell’eroe (o Story) a testo sacro dell’ortodossia creativa di Star Wars. Ed è una scelta legittima, tutto sommato. In generi o contesti differenti, chissà.
Il punto d’arrivo, secondo me, è una certa flessibilità, una certa pragmaticità: la scrittura è una ricerca personale e la scuola di scrittura può, al meglio, facilitare questo percorso proponendo una pluralità di stili, approcci, credenze, ma a patto che si concluda con un (metaforico) parricidio. Bisogna imparare a sorpassare i propri maestri, insegnanti, idoli, ad attraversarli e, infine, a farne a meno del tutto — per poi, semmai, ritornare: liberi da condizionamenti, da dipendenze affettive e didattiche. La maggiore età, in letteratura, non si raggiunge per inerzia, col passare del tempo.
Nell’edizione italiana dell’Introduzione al metodo di Leonardo,[5] sono andate perse le note al testo. In un passaggio dedicato alla visione e alla precomprensione, Paul Valéry ha aggiunto a margine la seguente frase, che penso si applichi anche alla scrittura: “L’éducation profonde consiste à défaire l’éducation première”[6]. L’educazione è un processo, non un risultato, e di sicuro non un contenuto.
Per rispondere alla seconda parte della domanda: le scuole di scrittura perfezionano le capacità di chi scrive (e forse, in virtù di questo, aumentano le possibilità di vedersi sugli scaffali delle librerie?); le case editrici pubblicano le opere che ritengono opportune, per ragioni letterarie o pecuniarie. Che siano nate in seno a un corso di scrittura è ininfluente.
Il legame tra scuole di scrittura e case editrici, poi, è più o meno stretto a seconda delle realtà specifiche. Feltrinelli detiene il 51% delle quote societarie della Scuola Holden, per esempio. La Bottega di narrazione, presieduta da Giulio Mozzi, appartiene a Laurana Editore. La Scuola Palomar, fondata da Mattia Signorini, collabora con l’agenzia Vicky Satlow. Entrambe, poi, condividono l’approccio generale (ogni corsista lavora a un singolo progetto letterario) e sono molto orientate alla pubblicazione. Insomma, dipende. Una scuola non è uguale all’altra (per fortuna).
(Qui potete trovare la puntata di Abisso Editoriale dedicata alle scuole di scrittura)
[1] Immanuel Kant, Critica del Giudizio, § 46-50, Editori Laterza 1997 [trad. it. di Alfredo Gargiulo riveduta da Valerio Verra]
[2] Simone Weil, L’ombra e la grazia, Bompiani 2000 [trad. it. di Franco Fortini]
[3] Fëdor Dostoevskij, Lettere sulla creatività, Giangiacomo Feltrinelli Editore 1991 [trad. it. di Gianlorenzo Pacini]
[4] “Più le cose cambiano, più restano le stesse”: epigramma pubblicato sulla rivista satirica Les Guêpes, gennaio 1849.
[5] Paul Valéry, Introduzione al metodo di Leonardo, in Varietà, SE 1990 [trad. it. di Stefano Agosti]
[6] “L’educazione profonda consiste nel disfare l’educazione ricevuta”: Paul Valéry, Œuvres: Tome 1, Gallimard 1987
Biografia
Un’editor e digital strategist che si crede Sherlock Holmes. Nessuno l’ha ancora smentita. Dal 2009 vive una relazione impegnativa col mondo editoriale e, non contenta, nel 2015 ha fondato un’agenzia di brand e content design insieme a Chiara Chinellato. È fissata con le norme redazionali, i fiori, i cani, le macchine da scrivere di una certa età, le cose fatte bene e altre sconcezze. Ha la tendenza a perdersi in dispute astratte dentro la sua testa, popolata da molteplici e multiformi personalità; odia tradurre ma lo fa lo stesso. Ha uno studio in blu che adora (ricambiata). Potete visitare il suo sito web: https://www.alessandrazengo.com/