Il mondo del copy, con Alice Orrù
Nella terza puntata della nostra rubrica dedicata alla parola scritta abbiamo chiacchierato con Alice Orrù, copywriter italiana (ma quadrilingue) di stanza a Barcellona e fondatrice della newsletter Ojalà, dedicata al copy inclusivo. Ci ha raccontato alcune cose del suo mestiere, delle sue esperienze multiculturali, e del perché le parole hanno un peso anche in settori apparentemente “neutri”, come quello della tecnologia.
Ciao Alice! Benvenuta. Tu lavori come copywriter. Iniziamo quindi con una domanda banale ma necessaria: cos’è e cosa fa un copywriter?
Sembra una domanda banale, ma in realtà la risposta è complessa.
La parola copywriter viene registrata per la prima volta intorno al 1911 per indicare il lavoro di chi scrive copy, cioè testi pubblicitari. Se dovessi dare un volto a questa versione originale della professione, penserei a Peggy Olson della serie tv Mad Men. In realtà, la prima copywriter della storia sia stata Helen Lansdowne Resort, assunta nel 1908 dall’agenzia di Chicago J. Walter Thompson.
Nel tempo l’accezione di copywriter si è ampliata, anche perché il mondo della pubblicità e del marketing si è evoluto e ramificato grazie al digitale: oggi con copywriting si intende il lavoro di chi scrive testi che hanno l’obiettivo di generare una conversione, un’azione misurabile, da parte del pubblico che legge.
Chi lavora come copywriter può scrivere testi per campagne di marketing sia offline che online, quindi anche per campagne di email o social media marketing, testi per siti web e app, può occuparsi di naming e payoff.
Quella del copywriter è diventata un po’ una professione-ombrello che include anche il content writing, cioè la scrittura di contenuti di più ampio respiro come articoli per blog, newsletter, script per video tutorial o white paper.
In questo contesto, lavorare come copywriter richiede competenze diverse e saper scrivere bene è solo l’inizio: altri ingredienti importanti sono la creatività, la chiarezza e, a seconda degli obiettivi, le tecniche di scrittura persuasiva.

In particolare, tu ti occupi di copy inclusivo. Cosa si intende con questa espressione? Perché hai sentito la necessità di occupartene?
Ho iniziato a definirmi copywriter inclusiva quando ho lanciato il mio sito web un anno fa, anche se scrivo copy inclusivi da molto più tempo.
Il copywriting inclusivo è la capacità di scrivere contenuti che rispettino non solo le buone norme di scrittura ma anche le persone che quei contenuti li leggono.
Un testo è inclusivo quando usa un linguaggio chiaro, accessibile e libero da espressioni che rafforzano stereotipi di genere, che escludono le persone con disabilità o che le discriminano per motivi razziali, religiosi o di età. È una scrittura rispettosa delle differenze e della varietà delle persone.
Ho iniziato a occuparmi di questo aspetto della comunicazione intorno al 2016, quando ho iniziato a lavorare con una startup francese che si occupa di plugin per i siti WordPress.
Dovevo lavorare su un plugin molto tecnico, di cui non sapevo nulla e che avevo dovuto studiare da zero. Tra i miei compiti c’era anche quello di scrivere la documentazione del prodotto.
Quello è stato il mio primo banco di prova con il linguaggio inclusivo: dovevo riuscire a rendere in italiano e in spagnolo contenuti tecnici molto complicati.
Il mio obiettivo era permettere alle persone che approdavano su quella documentazione di capire le caratteristiche del prodotto e come usarlo. Quindi puntavo a un linguaggio chiaro, accessibile, comprensibile per chi, come me, non aveva solide basi tecniche.
In quello stesso periodo ho iniziato a collaborare come traduttrice con la community WordPress, che è un’enorme comunità globale di persone che lavorano con o per WordPress.
Iniziai a frequentare le conferenze WordPress e a conoscere persone da tutto il mondo; scoprii che tutti gli eventi della community WordPress, italiani ed esteri, si basano su un codice di condotta fondato sull’accoglienza e sul linguaggio rispettoso.
Quella filosofia di inclusione mi ha fatto capire che volevo mantenere lo stesso approccio anche nel mio lavoro. Ho iniziato a scrivere e tradurre con un occhio di riguardo alla scelta delle parole, affinché fossero sempre il più rispettose e accoglienti possibile.
Oltre alle tue attività di copy, curi anche una newsletter proprio sul linguaggio inclusivo, Ojalá. Puoi raccontarci come è nato il progetto, come sta evolvendo? Come ti trovi a gestire un progetto parallelo rispetto alle tue attività di lavoratrice?
Mi piace molto leggere le newsletter e in passato ne ho scritte e curate diverse, sia per il mio blog personale che per progetti clienti.
Quando ho lanciato il mio sito web avevo già in mente di inviare anche una newsletter, ma ho tergiversato per diversi mesi.
Poi, a marzo 2021, l’incastro perfetto: mi sentivo ispirata, avevo un nome che mi convinceva e tantissimo materiale da condividere, frutto del mio lavoro e della mia passione per il linguaggio inclusivo.
Così è nata Ojalá, una newsletter “che parla di scrittura inclusiva, storie variopinte e begli esempi di rappresentazione e accessibilità sul web.” È dedicata a tutte le persone interessate ad approfondire i temi dell’accessibilità web, della comunicazione e della scrittura inclusive.
Sono temi di cui in Italia si sta, finalmente, parlando tanto. Eppure non conoscevo nessuna newsletter in italiano che stesse approcciando questi temi con una visione olistica, comprensiva di tutte le istanze che stanno dietro la scelta di usare un linguaggio inclusivo, soprattutto in ambito digitale: accessibilità, identità di genere, antirazzismo, discriminazione generazionale.
Finora ho mandato sei numeri, uno ogni due settimane, e sono già più di 800 le persone abbonate. Ogni numero di Ojalá viene accolto con entusiasmo; ricevo molte email di apprezzamento, e questa cosa mi emoziona e mi motiva.
Non è sempre facile gestire questo progetto e dedicargli il tempo necessario, ma è uno sforzo che vorrei continuare a fare. Per scrivere ogni episodio di Ojalá ho bisogno di circa dieci ore tra selezione del materiale, prima stesura, revisione e formattazione dell’email. Non è poco, ma per ora mi sento di dire che ne vale la pena.
Tu lavori in campo tech, che all’apparenza può sembrare un settore “freddo”, dove le istanze umane o politiche contano poco. E’ davvero così? La scrittura inclusiva è rilevante anche in ambienti tecnici?
È rilevante, certo!
Ci sono tanti stereotipi che ruotano intorno alla parola “tech”. Si tende ad associare questo mondo al calcolo, ai codici, ai numeri, dimenticando che il tech è umano perché alimentato e sviluppato da persone.
Certo, c’è un grande bias di fondo; per troppo tempo il mondo del tech è stato appannaggio soprattutto di uomini bianchi, cis ed eterosessuali, che vivono in aree privilegiate del mondo.
Questo ha senza dubbio avuto un grande impatto sulla produzione tecnologica e sul modo in cui viene fruita dalle persone. Per approfondire questo problema consiglio la visione del documentario Coded Bias, che indaga con precisione il potere degli algoritmi nella propagazione dei bias e i pericoli della narrazione unica, che esclude dalla tecnologia diversi segmenti della popolazione.
Dovremmo tenere in conto che, in una società iper-tecnologica come la nostra, (quasi) tutto ha a che fare con il tech, partendo dal blog su cui leggiamo questa intervista.
Io scrivo e traduco testi per siti e app, lavoro dietro le quinte del web ogni giorno, cosciente che le parole che uso diventeranno testi che guidano le persone a prenotare un servizio, a usare un plugin o un tema WordPress, a implementare un eCommerce sul loro sito web.
Come me, migliaia di altre persone al mondo lavorano nel tech, scrivono e disegnano esperienze di navigazione che hanno un impatto sulla nostra vita, anche se non sempre ce ne accorgiamo.
Come non sentirmi responsabile dell’uso delle parole, in un contesto del genere?
Per questo motivo, per me scrivere contenuti per il tech è un esercizio costante di scrittura inclusiva.
Penso, per esempio, a quando scelgo di evitare il maschile sovraesteso per parlare di professioni o di gruppi misti di persone; o a quando lavoro ai moduli di profilazione e iscrizione, quelli in cui ci viene chiesta la nostra identità di genere o, peggio, il sesso.
Scrivere in modo inclusivo significa anche sapere quali domande non fare o come formulare le opzioni di risposta in un modulo nel modo più rispettoso possibile.
È scrittura inclusiva anche quella che permette a tutte le persone, a prescindere dal livello di scolarizzazione o dall’età, di fruire di un prodotto digitale senza confusione né ostacoli.
La chiarezza del linguaggio per il pubblico di riferimento sta alla base di tutto.

Infine, lavorare con la parola scritta sembra contemporaneamente molto di moda e molto vintage al giorno d’oggi. Cosa pensi di aver imparato dal tuo percorso, e che consigli daresti a chi vuole avvicinarsi alla professione di copy, anche rispetto al rapporto con le aziende, all’aspetto salariale e contrattuale (esempio: meglio fare pratica come dipendente o come freelance, meglio iniziare da dipendente e continuare da libero professionista o viceversa…)
Il percorso che mi ha portato a lavorare come copywriter non è lineare ma frutto di esperienze in contesti eterogenei; questo mi ha aiutato a praticare la scrittura per pubblici e obiettivi molto diversi.
Le aziende spesso hanno bisogno di profili ibridi, di persone che sappiano usare la scrittura per risolvere problemi e per parlare davvero alle persone.
Credo sia importante curare le competenze trasversali – ascolto in primis – che spesso non dipendono dal posseso di una laurea o di certificazioni di corsi.
Il mio consiglio è non avere paura delle contaminazioni e coltivare anche esperienze non strettamente legate alle scrittura. Nel mio caso le esperienze cruciali sono state imparare bene una lingua straniera, lavorare nel supporto al cliente, fare volontariato in una community open source come quella di WordPress.
L’ottima conoscenza di almeno una lingua straniera apre molte porte anche per il lavoro di copywriter, soprattutto nel settore tech.
Per quanto riguarda il rapporto con le aziende, posso parlare solo della mia esperienza.
Ho lavorato come dipendente nei reparti marketing di diverse aziende italiane per dieci anni prima di diventare copywriter e aprire la Partita Iva (in Spagna, dove mi sono trasferita nel 2012).
La vita d’ufficio non faceva per me ma mi ha insegnato tanto, soprattutto dal punto di vista delle dinamiche decisionali all’interno delle aziende. È un campo di prova su cui non tornerei, ma che ha lasciato il suo segno.
Come ho scritto prima, per cinque anni ho lavorato in una startup tech francese fondata sulla cultura del lavoro da remoto e su una squadra di persone provenienti da ogni angolo del mondo: è in questo contesto che ho iniziato a lavorare come copywriter.
Lavorare in un’azienda da remoto è un’esperienza arricchente e molto diversa dal classico lavoro di ufficio. L’inquadramento contrattuale è, di solito, quello chiamato contractor.
Se la sede dell’azienda è all’estero, bisogna aprire Partita Iva nel proprio Paese di residenza. Chi lavora come contractor per un’azienda estera di solito gode di tutti i vantaggi di un lavoro dipendente: stipendio fisso mensile, ferie e malattie pagate, a volte benefit vantaggiosi.
Può essere un compromesso interessante, se ci si sente portati per il lavoro da remoto in un contesto multiculturale.
Il lavoro da remoto è ora molto più comune rispetto a quando ho iniziato io; è un’esperienza che consiglio a chi vuole lavorare come copywriter e conosce bene l’inglese.
Due ottime piattaforme per cercare opportunità di lavoro come copywriter/content writer da remoto sono WeWorkRemotely e Remoters.
Diventare copywriter freelance al 100%, invece, comporta sfide molto diverse e, secondo me, anche una buona dose di coraggio.
Il copywriting è un settore molto competitivo, e all’inizio, quando si ha poca esperienza, può essere complicato riuscire a lavorare in modo economicamente sostenibile.
C’è spesso la tendenza a negoziare tariffe molto basse pur di aggiudicarsi il cliente, cosa che alla lunga diventa frustrante e rischia di trasformarsi in un tunnel da cui è difficile uscire.
In questo contesto, credo che la cosa migliore per partire sia trovare un’agenzia di comunicazione che cerca copywriter freelance a medio-lungo termine: occhio alle condizioni, però!
Bio: Alice Orrù è una copywriter e traduttrice tecnica con il pallino per il linguaggio inclusivo e per i siti WordPress. È convinta che qualsiasi argomento ostico possa diventare comprensibile, se spiegato bene.Ogni due lunedì manda una newsletter su comunicazione inclusiva, accessibilità e storie variopinte, si chiama Ojalá. Nel tempo libero mangia patatas bravas, gironzola per Barcellona e legge letteratura latinoamericana.